Il termine dialettale “bauscia” ha almeno tre significati. Il primo, quello letterale, vuol dire bava. Il secondo, legato al mondo sportivo e in particolare al calcio, indica invece i tifosi interisti, contrapposti a quelli milanisti che invece vengono chiamati “casciavit”. Il terzo, che è quello che interessa a noi, indica invece una figura professionale decisamente fuori dal comune: si tratta del famoso accalappia clienti assoldato dai mobilieri brianzoli fin dagli Trenta. Qualcuno potrebbe anche pensare che in realtà non siano mai esistiti, che siano frutto della fantasia, personaggi da romanzo. Invece no, a partire dagli anni Cinquanta lungo il tratto lissonese della Valassina, che a quel tempo non aveva svincoli e viadotti come oggi, ma incroci e semafori anche con la svolta a sinistra, si potevano vedere gruppetti di giovanotti intenti a scrutare con occhio clinico gli automobilisti di passaggio. Non si trovavano solo lungo la Valassina, ma anche in tutte le altre strade trafficate della città e nel piazzale della stazione ferroviaria. Il loro compito era di abbordare nuovi clienti, per lo più giovani coppie in procinto di sposarsi, e convincerli ad acquistare mobili nel negozio che li pagava.
Bauscia, appunto, perché vomitavano lodi e apprezzamenti per i prodotti da loro reclamizzati come se fosse bava. Attenzione, però. Questi bauscia, anche se possono sembrare pittoreschi, non vanno sottovalutati perché sono diventati il simbolo della Lissone “Città del mobile”, così come diceva un’insegna affissa sotto i cartelli d’ingresso della città, e perché, a loro modo, sono anche entrati a far parte della storia economica italiana. La loro comparsa sulla scena risale agli anni Trenta, ma è nei primissimi anni Cinquanta che inizia la loro ascesa, quando in pieno Miracolo economico italiano i mobilieri di Lissone decisero di ripescare un’idea commerciale nata durante il Ventennio fascista: “La Settimana del mobile”. Si trattava, in sostanza, di trasformare la città in un enorme show room per sette giorni, talvolta anche quindici, e di combinare l’apertura straordinaria di negozi e botteghe con festoni, spettacoli e fuochi d’artificio. Fu una vera svolta, la seconda dopo quella del colonnello Privat.
Le settimane lissonesi ebbero un grande successo di pubblico e soprattutto spalancarono la porta alle successive mostre dell’arredamento e al connubio con la Triennale di Milano. Artigianato e arte. In fin dei conti da Vinci, Michelangelo e Caravaggio non avevano forse iniziato in una bottega? Fu proprio in questi anni che il binomio fra Lissone e mobili si stampò a caratteri di fuoco nell’immaginario collettivo. La “Settimana del Mobile” divenne un evento e quando i mobilieri decisero di abbinare anche un premio per la pittura, il tutto si trasformò in un evento culturale. All’inizio degli anni Sessanta il Corriere della Sera scomodò persino la penna di Dino Buzzati per descrivere ciò che stava accadendo alle porte di Milano. Un romanziere, appunto, per raccontare quello che già all’epoca era classificabile come un vero e proprio fenomeno economico e sociale. Raccontare gli eventi di quegli anni, tuttavia, non basta per capire come Lissone, una città che già al tempo contava circa 20 mila anime, abbia potuto trasformarsi in un unico grande mobilificio.

E per risolvere questo mistero abbiamo pensato di avvalerci dell’aiuto di due detective d’eccezione: Diego Coletto e Simone Ghezzi, ricercatori del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università Milano-Bicocca, secondo i quali la soluzione è da ricercarsi nella concomitanza di alcuni fattori.
“Innanzitutto la tradizione artigiana tramandata all’interno delle botteghe nel corso degli anni – spiega Coletto -. Quello del mobiliere è stato un mestiere imparato a bottega e queste conoscenze tacite nel tempo si sono radicate nel tessuto sociale. Determinante è stata anche la capacità di fare rete fra imprese, amministrazione comunale, associazioni di categoria e la scuola di formazione professionale. Inoltre, una fiducia diffusa, legata alla conoscenza reciproca degli artigiani-bottegai, ha favorito transizioni economiche e relazioni di lavoro. Ovviamente non è detto che questo mix di fattori sociali ed economici possa durare in eterno, né che sia funzionale ad affrontare qualsiasi scenario economico”.
Altri due elementi hanno storicamente giocato un ruolo centrale nell’ascesa dei mobilieri lissonesi e brianzoli. “Agli inizi dell’800 gli artigiani più abili si trovavano a Milano – prosegue Ghezzi -. Tuttavia l’esistenza di dazi sull’ingresso e sull’uscita di merci rese più conveniente per le famiglie di nobili che volevano arredare la loro tenuta di campagna reperire mobilieri in loco. Il familismo imprenditoriale dei brianzoli ha giocato poi un ruolo centrale nel processo di specializzazione e di incremento della qualità dei prodotti. A differenza dei paesi anglosassoni, dove l’attività imprenditoriale è improntata a un maggiore individualismo, la famiglia brianzola ha una capacità di organizzarsi come una piccola impresa quasi unica al mondo”.
I dazi, il familismo imprenditoriale, la scuola e la capacità di fare rete sono dunque i quattro elementi chiave.
E alcune date aiutano a capire meglio la portata della rete citata dal professore Coletto: nel 1941 venne inaugurata la Biblioteca del mobile, istituzione unica in Italia, nel 1951 il Comune varò l’Ente del mobile con il proposito di potenziare il mercato, due anni dopo nacque l’Ipsia, l’Istituto professionale di stato per l’industria e l’artigianato e, per finire, nel 1963, nel corso del Congresso europeo del mobile, i prodotti lissonesi diventano un vero e proprio caso mediatico. Se ne parlò in 111 articoli pubblicati da oltre 30 testate nazionali ed europee e venero descritti in sette trasmissioni radiotelevisive. Ma i numeri che consentono di misurare fino in fondo la portata del fenomeno Lissone sono quelli relativi alle realtà aziendali attive sul territorio fra gli anni Sessanta e Settanta: 1300 aziende per un totale di oltre sei mila addetti, vale a dire il 55% della popolazione attiva con un fatturato di 50 miliardi di lire. Insomma se a Cinecittà si facevano i film, a Lissone si facevano i mobili e nonostante i fisiologici alti e bassi dell’economia nazionale e internazionale, la combinazione dei due elementi indicati da Coletto si rivelò vincente fino almeno alla fine degli anni Settanta.

È in quegli anni infatti che la popolarità del “Bauscia” travalica i confini di una semplice professione e diventa un fatto di costume. L’acchiappa clienti dall’occhio clinico e dall’inequivocabile accento ha ispirato barzellette, sketch ed è diventato uno dei cavalli di battaglia delle gag di Massimo Boldi al mitico Derby di Milano, uno dei locali che hanno fatto la storia del cabaret meneghino e non solo. In quegli anni la fama conquistata dai bauscia aveva raggiunto livelli tali da creare persino problemi di sovrabbondanza e abusivismo. Non di rado i vigili dovevano intervenire per sedare liti e risse fra bauscia che si rubavano clienti fra di loro e a un certo punto l’amministrazione decise di mettere un punto regolamentando la professione. Nacque così anche il primo regolamento del bauscia lissonese fatto da tre semplici disposizioni. Prima: le aziende potevano avere solo un bauscia alle proprie dipendenze. Secondo: doveva essere assunto e non pagato a gettone. Terzo; non poteva sostare nelle vicinanze di altre ditte. La licenza da bauscia aveva un costo di 25 mila euro, mentre il rinnovo annuale ne costava 50.
Ma se da una parte gli anni Settanta sancirono definitamente il successo dei mobilieri, gli Ottanta significarono l’inizio di una fase di crisi che ha una data ben precisa: 14 marzo 1986, vale a dire il giorno in cui dalla Svezia rimbalzò la notizia che Ikea avrebbe aperto a breve un punto vendita a Carugate. Fu un brutto colpo per la categoria, anche se non come quello inferto dalla Lega nel 2011, quando aprì una sede ministeriale in Villa Reale ma con mobili fatti arrivare da Catania. Fortunatamente in giro per il mondo l’arte dei mobilieri brianzoli è ancora conosciuta e apprezzata. Oggi il numero di mobilifici è decisamente più contenuto rispetto al passato: Lissone ne conta 500, mentre la Brianza 2 mila. I prodotti, tuttavia, continuano a non conoscere confini. Uno degli ultimi lavori è stato la progettazione e la realizzazione del nuovo book shop della collezione d’arte Guggenheim di Venezia e a realizzarlo sono stati proprio i bis bis nipoti di quei contadini che un secolo fa, un po’ per caso, costruirono un letto sufficientemente lungo per un ufficiale napoleonico troppo alto.

Grazie al lavoro del baucia (lavoro che svolgevo sabato e domenica quando tornavo da naia,in compagnia dell’amico Maurizio)mi sino potuto mantenere in modo lussuoso per quei tempi,anche questa è storia quarant’anni fa
grazie per questa interessante cronaca che non conoscevo, nonostante le tante cose lette sul salone del mobile. Precisa e chiarificante.
Buonasera volevo chieder il permesso di usare questa immagine (https://storiedimenticate.it/wp-content/uploads/2018/02/storia_del_mobile_brianza.jpg) sul sito di un mio cliente a Lissone.
Lui possiede un negozio di arredamento che esiste da più di 40 anni, purtroppo non abbiamo immagini di quel periodo.
Cordiali saluti
Martino.